Ritratti di persone che non esistono


Cliccate su questi ritratti. Sono stati generati dalla pagina: This Person Does not exist.
Qui se ne spiega il funzionamento.

Potete fare una prova e crearne quanti volete; con un semplice refresh della pagina si genera un volto unico e irripetibile che “vive” fino al prossimo refresh. Si tratta di volti indistinguibili da quelli reali, l’unica differenza è che queste persone non esistono. Il che è piuttosto inquietante: sono ritratti di persone che potremmo aver incontrato al bar o in coda alle poste mezz’ora fa. Li guardiamo e senza volerlo li trattiamo come faremmo se fossero ritratti di persone comuni. E un istante dopo, ricordandoci che sono fatti solo di bit, ci spaventiamo di quel che abbiamo appena pensato e provato.

Questa è la parte facile

Secondo Roland Barthes, l’essenza della fotografia è la produzione di una traccia di qualcosa o qualcuno che “era là”. Una traccia, un riflesso fatto di ombre, letteralmente, più che di luce: dove c’è solo luce non c’è alcuna fotografia, solo un foglio bianco. È tale essenza che spiegherebbe il noto fenomeno per cui guardare una vecchia fotografia, anche di uno sconosciuto, ci può provocare una leggera ferita: immaginiamo per un istante la vita di quella persona che “era là, proprio là, è esistita in quel momento”: pensiamo ai suoi gesti, persino ai suoi pensieri, così simili ai nostri. È una strana perturbazione dolorosa nel sentire che “lì dietro” c’è - c’era! - una vita proprio come la percepiamo dentro di noi: è l’esperienza dell’uscire da sé e del collocarsi a metà, in quella zona indistinta tra io e altro, tra soggetto e oggetto, in cui potremmo essere entrambi.

La fotografia, dice Barthes, rendendo eterno “quel momento”, ne sancisce però anche la sparizione, la morte: ogni fotografia, anche quella scattata due minuti fa, mostra quindi l’assente. E questo scatena l’empatia. Cioè l’amor di sé in forma d’altro. Si tratterebbe qui della capacità della fotografia, agendo come prelievo, di farci percepire l’altro da noi mostrandoci “in figura” la sua presente assenza: la capacità della fotografia di evocare la vita altrui nella forma della sua mancanza.

Ora: come è evidente almeno dall’avvento del digitale, questa capacità può essere simulata. Se guardare un ritratto può evocare pensieri, sensazioni ed emozioni circa la vita di uno sconosciuto che “era là”, cosa accade quando in realtà quello sconosciuto non è mai esistito e quel volto è il prodotto di un algoritmo? L’empatia funziona a vuoto: incredibilmente, possiamo rimpiangere persone mai esistite. Ecco il doppio turbamento nel farle sparire con un refresh: ti dispiace che sparisca, anche se sai che non esiste realmente.

A dirla tutta, e a lato di tutte le riflessioni spesso non proprio profondissime che si possono fare sulla fotografia che forse è cambiata forse no, sul nostro tempo, sugli automi che sostituiranno gli umani e signora mia dove andremo a finire, questo fenomeno non è proprio un inedito. Quando guardiamo un film ci appassioniamo e tremiamo per la sorte di personaggi fatti di celluloide. E a teatro empatizziamo verso attori che simulano di essere qualcun altro - che esistono cioè “in figura d’altro” (potremmo dire, anche in quei casi: empatizziamo verso “automi”, oppure “verso segni”, e sarebbe giustificato in entrambi i casi: l’automa è un segno? E viceversa?). Non può che essere cosi, del resto. Pure il volto di Bambi ci fa commuovere, e lui di sicuro non esiste. Fingendo di capire quel che stiamo dicendo, possiamo spiegare che siamo programmati geneticamente per reagire ai volti. Tutto il mistero è proprio come si passi dal reagire a un volto, cosa che un neonato sa fare a due mesi, al disegnare un volto, abilità pare inedita prima del Paleolitico. Di cosa stiamo parlando, allora?

Ora la faccenda si fa dura

Senza dubbio le sensazioni che potremmo provare di fronte alla foto di una persona sconosciuta sono “solo” nostre proiezioni. Peraltro ogni sensazione che proviamo quando ci immedesimiamo in un altro è una proiezione; e secondo le neuroscienze, a rovescio, qualsiasi osservazione di gesti altrui - ti guardo mentre compi un qualsiasi gesto - attiva i neuroni-specchio, cioè attiva l’immedesimazione (la “simulazione incarnata”) e l’uscire da sé: noi vediamo/capiamo cosa l’altro sta facendo solo “rifacendolo” in modo virtuale, “fingendo di essere lui”, “essendo in figura di”.

Questo potrebbe spiegare in parte la figuralità, che magari diamo per scontata ma è la cosa meno scontata di tutte. Noi produciamo figure - e le disegniamo dalla notte dei tempi ad esempio sui muri della caverna in forma di bisonti e gazzelle - come prosecuzione della nostra relazione di co-appartenenza al mondo, cioè della co-appartenenza tra io e l’altro che è la base della percezione/comprensione attraverso “l’essere in figura di”. Anche gli altri animali a quanto pare funzionano così. Noi, in più, produciamo fisicamente delle “figure”, cioè distanziamo fuori di noi quelle operazioni gestuali e neuro-gestuali che intessono il rapporto io-altro, piegandole miracolosamente su di sé e traducendole in “di-segni”: cioè in “confini di cose” tracciati e scritti, ossia nelle definizioni dei limiti delle reciproche parti che si co-appartengono e nella perfezione del loro essere “parte di, mancante di nulla”: tracciando la sua figura lui inizia a diventare bisonte, io cacciatore e proprio così, grazie a questo segno, resteremo per sempre uniti/divisi.

Questa distanza che così viene aperta e tracciata, allude di continuo a una provenienza comune, il rapporto di co-appartenenza, che non c’è più e a dire il vero non è mai stata “presente”: non poteva stare nella consapevolezza poiché la consapevolezza si dà solo nella distanza. E nello stesso tempo mi prepara ad avere il bisonte come “esterno”, come orizzonte futuro sempre rincorso. La civiltà umana inizia con la produzione di segni - pitture, manufatti - e con l’invenzione dei riti funerari e sacrificali, in cui si celebra la comune origine, e fine.

Più che sulla fotografia, forse questo strano fenomeno - empatizzare per qualcuno che non esiste o meglio esiste “in figura di” - ci dice qualcosa su come funzioniamo noi, sul fatto che siamo riflessi di figure che noi stessi creiamo. Ciò che si mostra in modo così preciso e scatena il carattere perturbante di questi “ritratti” è una memoria ancestrale: iniziamo a esistere come umani quando “l’essere in figura di” (la dimensione del segno) ci e-moziona (cioè segnala con una corrispondenza percettiva il nostro venire-da: ex-movere). Quando, ad esempio, dicendo ma-ma per la prima volta, piegando su di sé e raddoppiando un gesto vocale prima inarticolato (il due viene prima dell’uno!), ora possediamo in figura “la mamma”, l’abbiamo di fronte e anzi quasi in palmo di mano, nella parola conquistata, questa “parte perfetta” che direttamente da lei pare provenire; e insieme la proiettiamo a una distanza mai più colmabile dovendola per sempre ritrovare nei suoi gesti, nel suo apparire a quel “me” che siamo appena diventati. Diventiamo ciò che siamo al bordo di un’unità che non è mai stata presente: il segno ci assegna una provenienza - l’aver già corrisposto e interpretato, aver già che è sempre perduto nel nulla - e una destinazione - il dover sempre di nuovo corrispondere e interpretare i segni di quello che ora è lo star di fronte: “Mamma?”.

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